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Alfonso Gatto, 25 aprile

Il 25 aprile 1945 il poeta Alfonso Gatto, insieme con altri incaricati, fa stampare a Milano la prima copia legale dell’“Unità”.

Molti dei suoi versi sono dedicati all’esperienza e ai valori della Resistenza. Nel 1946 scrive 25 aprile, poi pubblicata nella raccolta La storia delle vittime. Poesie della Resistenza (aprile 1966).

Eugenio Curiel è nato a Trieste l’11 dicembre 1912, ucciso a Milano il 24 febbraio 1945, fisico, capo del Fronte della Gioventù, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria.

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I nostri compiti in un tempo difficile

L’elezione del presidente nazionale dell’Anpi. La telefonata del presidente dei partigiani sloveni Marijan Krizman. I valori della Resistenza e la drammatica crisi attuale. Tre punti fermi di lavoro: unità, giovani, cultura. La prospettiva del congresso. Nervi saldi, cervello a tutto regime, cuore in mano.

Pochi minuti dopo la mia elezione a presidente nazionale dell’Anpi, quando già le agenzie avevano battuto la notizia ed era ancora in corso la riunione del Comitato nazionale, è squillato il mio cellulare. Era Marijan Krizman, presidente della ZZ NOB, l’associazione partigiana slovena, che mi chiamava per felicitarsi dell’incarico che mi era stato consegnato e per esprimere la sua personale soddisfazione. Con lui mi ero incontrato il 25 settembre a Trieste concordando un comune piano di lavoro.

È stata la prima di tantissime telefonate. Questo gesto mi pare simbolico del ruolo che svolge oggi l’Anpi su scala continentale. È così: oggi l’associazione nata dai combattenti della Liberazione ha un peso e una voce di grande rilievo, che va oltre i confini del Paese e ne testimonia la vocazione europeista.

È evidente che l’incarico a cui sono stato chiamato è per me un grande onore, e mi attribuisce una straordinaria responsabilità. Davanti a tutti i cittadini, tutti gli antifascisti, tutte le iscritte e gli iscritti Anpi. Ma anche davanti a chi non c’è più: i partigiani, le staffette, i protagonisti dei venti mesi che allora riscattarono l’Italia dall’infamia di un ventennio di guerre di aggressione e di repressione selvaggia di qualsiasi opposizione. Di quelle donne e di quegli uomini ci rimane una memoria fondativa, un gene ineliminabile che è la ragione stessa dell’esistenza dell’Anpi e che citiamo come un riferimento di valori costitutivi: libertà, eguaglianza, democrazia, solidarietà, pace. Ci troviamo perciò ad essere i custodi di questo scrigno ideale. Eppure non basta; occorre il passo successivo, e cioè come questo grappolo di valori si misuri e si incarni nel luogo e nel tempo che viviamo, insomma nel mondo e nell’Italia di oggi. A dire il vero questo è sempre avvenuto, dai tempi del presidente Arrigo Boldrini a quelli, più recenti, del presidente Carlo Smuraglia, agli ultimi tre anni, gli anni della presidente Carla Nespolo la cui scomparsa ha causato in tutti noi un traumatico dolore.

Ma le novità degli ultimi anni, mesi, settimane, incalzano, e richiedono il massimo di riflessione su ciò che sta cambiando. Siamo in una situazione evidente di difficoltà democratica, causata da alcuni fattori che contemporaneamente operano in negativo: il violento riprendere della pandemia col suo carico di insicurezze, di allarme sanitario e di lutti; l’irruzione di una tensione sociale causata principalmente dai riflessi dei provvedimenti di tutela contro il virus sulla situazione economica di intere fasce sociali, professioni, nuclei familiari; la rabbia delle periferie; lo squadrismo fascista più o meno organizzato che ha accompagnato molte manifestazioni di protesta negli ultimi giorni. Si aggiungano le incertezze e contraddizioni interne al governo, il ruolo di gran parte dell’opposizione – non di tutta – negativo, prevalentemente rivolto a esasperare le tensioni sociali, le tensioni con le Regioni, nonostante i meritori appelli del Presidente della Repubblica sull’esigenza di politiche condivise e di una collaborazione fra istituzioni.

In un quadro così inquietante di difficoltà democratica l’Anpi può e deve operare alla luce di quel sistema di valori che sono – a ben vedere – la sua ragion d’essere. Avremo modo di approfondire questo argomento, oggi particolarmente complesso e difficile. Ma alcuni punti mi paiono già fermi.

Il primo riguarda la politica dell’unità. Dobbiamo continuare a perseguirla in modo rigoroso e coerente. Come prima, più di prima. In una parola, unità fino in fondo in particolare sui temi essenziali della missione dell’Anpi: la memoria, il contrasto ai neofascismi e ai razzismi, l’impegno per l’attuazione della Costituzione. La politica dell’unità va approfondita. Mi riferisco all’infinito mondo dell’associazionismo, del terzo settore, del volontariato, dalle grandissime organizzazioni – sindacati, Arci, Acli, Libera – al pulviscolo associativo che è presente in ogni campanile. Mi riferisco al movimento delle sardine. Mi riferisco ovviamente alle altre associazioni partigiane. Ma mi riferisco anche al popolo, alle persone, al nostro rapporto diretto con i cittadini e i lavoratori al mercato, al bar, nelle aziende e nelle fabbriche, sui social, ovunque. L’antifascismo è anche e per alcuni aspetti specialmente unità popolare, in particolare oggi. L’unità, la condivisione, la solidarietà sono ragionevolmente l’unico antidoto contro solitudine, insicurezza, rancore.

Il secondo punto è il rapporto con i giovani. Da più di dieci anni è in corso una nostra meritoria apertura alle giovani generazioni. Ebbene, noi dobbiamo far sì che questa apertura diventi larghissima. Mi riferisco alle fasce di età dai 18 ai 35 anni, cioè dai ragazzi fino ai giovani adulti. Queste generazioni sono portatrici di sensibilità, linguaggi, costumi, abitudini, culture, del tutto diverse da quelle delle generazioni precedenti. Quarant’anni fa il figlio dell’operaio, grazie alle conquiste sociali del tempo, poteva ambire a diventare avvocato o medico; oggi, se gli va bene, fa il rider. Allora c’erano luoghi e modi di socializzazione. Oggi i luoghi sono stati cancellati e i modi sono del tutto cambiati. Fra noi e loro c’è stata la rivoluzione del web. Si tratta di generazioni che hanno maturato attenzioni diverse rispetto alle nostre: penso in particolare – ma non solo – alle tematiche del riscaldamento globale. Oggi queste generazioni hanno avuto tanti, troppi esempi negativi. Tanti, troppi cattivi maestri. Prevale un mainstream pseudoculturale dominante infarcito di violenze e disvalori, un senso comune indotto fascistoide che non va sottovalutato. E gli effetti si vedono troppo spesso anche nella cronaca nera. C’è perciò un problema di cultura, cioè di conoscenza, costume, abitudini di vita che va affrontato.

Ed ecco il terzo punto. La cultura è l’elemento fondamentale per declinare il sistema di valori nato dalla Resistenza nelle contraddizioni dell’Italia attuale. Non basta essere predicatori di libertà, democrazia, eguaglianza, solidarietà, pace. Occorre operare perché questi valori ispirino sempre più l’insieme delle attività culturali del nostro Paese, la formazione, l’autoformazione. L’obiettivo dev’essere la costruzione di un punto di vista critico che non può maturare senza un accrescimento dei saperi, senza un accumulo di conoscenze. Dev’essere perciò messo a tema il rapporto fra l’Anpi e il complesso mondo degli intellettuali, che oggi è molto diverso da quello degli 50, 60, 70, sia perché sono cambiati i lavori intellettuali, sia perché sono scomparse le grandi agenzie politiche e sociali di quel trentennio. Questo è tanto più urgente perché stanno scomparendo grandi figure di riferimento artistico e culturale del dopoguerra. Sono tutti nostri lutti, lutti del Paese: penso a persone, solo per citare ferite recentissime, come per Gigi Proietti, o meno recenti, come per Gianrico Tedeschi, Rossana Rossanda, Andrea Camilleri, Franca Valeri, Paolo Poli.

L’Anpi, in questa situazione così difficile e carica di rischi, si avvierà fra poco verso i lavori congressuali. Il congresso nazionale si svolgerà verso la fine dell’anno prossimo e sarà preceduto, come sempre, dai congressi provinciali e da quelli di sezione. Non sarà di certo una routine: tutto sta cambiando in un vortice di tensioni e di drammi. Basti pensare alle sconvolgenti notizie dei giorni scorsi dalla Francia.

Nervi saldi, cervello a tutto regime, cuore in mano: ecco l’Anpi che si avvia al congresso, l’Anpi dei prossimi mesi, pronta a raccogliere la sfida di una postmodernità che si sta dimostrando matrigna. Certo, è un lavoro quotidiano. Ma che parte da una visione di mondo in cui al centro sono le persone. La visione della Costituzione della repubblica italiana. Se il presidente di una Regione scrive, a proposito dei decessi degli anziani (e non c’è smentita – caro Toti – che tenga) che si tratta di “persone non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese”, vuol dire che il guasto è giunto alle radici del patto costituzionale, vuol dire che persino in alcune istituzioni alberga una visione per cui prima vengono le merci, poi le persone, prima l’economia, poi la vita. Questo è intollerabile. In un tempo di volgare e blasfema strumentalizzazione dei simboli religiosi colpisce, fra l’altro, l’abissale distanza dal messaggio evangelico e dall’ultima enciclica potentemente ispirata a quel messaggio, “Fratelli tutti”, di poche settimane fa.

L’Anpi è qui. In un tempo sferzato da pandemia, violenze e povertà, l’Anpi è qui. Con Carla nel cuore. Con un vicepresidente vicario – Carlo Ghezzi – per un ulteriore rafforzamento della nostra struttura. Con un gruppo dirigente confermato e con alcuni importanti ingressi. Pronti a fare la nostra parte. Partigiani, come allora. Partigiani delle persone, della loro dignità, della loro vita. Partigiani della Costituzione. Partigiani, contro i fascisti vecchi e nuovi. Partigiani, contro le guerre vecchie e nuove. Chiamatelo antifascismo. O, se volete, umanesimo nel terribile anno 2020.

di Gianfranco Pagliarulo

da Patria Indipendente

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La strage di Piazzale Loreto a Milano – 10 Agosto 1944

La strage di Piazzale Loreto fu un eccidio avvenuto in Italia, il 10 agosto 1944 in Piazzale Loreto a Milano, durante la seconda guerra mondiale.

Quindici partigiani furono fucilati da militi del gruppo Oberdan della Legione Autonoma Mobile Ettore Muti della RSI, per ordine del comando di sicurezza nazista, e i loro cadaveri vennero esposti al pubblico.

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Cosi raccontò questa vicenda il Comandante Partigiano medaglia d’oro al valor militare Giovanni Pesce nel libro “Senza tregua” edito da Feltrinelli.

“Queste idee mi ronzano in testa la mattina del 10 agosto durante la mia sortita quotidiana. Ho sete almeno di notizie ufficiali, in assenza di quelle saltuarie fornitemi dalle staffette del comando. L’ombra degli alberi che proteggono Viale Romagna dal sole mi conduce all’edicola. Ho fra le mani un giornale e sotto gli occhi il comunicato della fucilazione di Piazzale Loreto.

Quindici ostaggi uccisi. Scorrendo febbrilmente l’elenco trovo il nome di Temolo, il capo della cellula della Pirelli, uno dei piú coraggiosi, dei piú bravi. Anche lui c’è cascato.

Da viale Romagna si raggiunge Piazzale Loreto lungo un rettilineo fino in via Porpora e si svolta a sinistra. Dappertutto cordoni di repubblichini: militi dietro militi, sempre piú fitti, sempre piú lugubri. In Piazzale Loreto una folla sconvolta e sbigottita. Si respira ancora l’odore acre della polvere da sparo. I corpi massacrati sono quasi irriconoscibili. I briganti neri, pallidi, nervosi, torturano il fucile mitragliatore ancora caldo, parlano ad alta voce, eccitatissimi per aver sparato l’intero caricatore.

Sbarbatelli feroci, vicino a delinquenti della vecchia guardia avvezzi al sangue ed ai massacri, ostentano un atteggiamento di sfida, volgendo le spalle alle vittime, il ceffo alla folla. Ad un tratto irrompe un plotone di repubblichini, facendosi largo a spinte, a colpi di calcio di fucile e andando a schierarsi vicino ai caduti.

“Via via, circolate,” urlano. Spontaneamente il popolo è accorso verso i suoi morti. Ora la folla, ricacciata, viene premuta fra i cordoni dei tedeschi e dei fascisti. Urla di donne, fischi, imprecazioni.

“La pagheranno!”

I repubblichini, impauriti, puntano i mitra sulla folla.

Dall’angolo della piazza scorgo lo schieramento fascista accanto ai nostri morti. Potrei sparare agevolmente se i fascisti aprissero il fuoco. In quel momento, fendendo la calca, si fa largo una donna: avanza tranquilla, tenendo alto un mazzo di fiori; raggiunge le prime file, vicino al cordone dei repubblichini, come se non vedesse le facce livide e sbigottite degli assassini; percorre adagio gli ultimi passi. Scorgo da lontano quella scena incredibile, un volto mite incorniciato da capelli bianchi, un mazzo di fiori che sfila davanti alle canne agitate dei fucili mitragliatori. I fascisti rimangono annichiliti da quella sfida inerme, dall’improvviso silenzio della folla. La donna si china, depone i fiori, poi si lascia inghiottire dalla folla. Comincia così un corteo muto, nato come da un improvviso accordo senza parole.

Altre donne giungono con altri fiori passando davanti ai militi per deporli vicino ai caduti. Chi ha le mani vuote si ferma un attimo vicino alle salme mar-toriate. Per ogni mazzo di fiori ci sono cento persone che sostano riverenti.

Si odono distintamente i rumori attutiti dei passi e si colgono i timbri alti delle voci. Accanto a me uno bisbiglia: “vede quello lì sulla sinistra? Tentava di scappare. Appena era sceso dal camion si era diretto di corsa verso una via laterale. Credevamo che ce l’avrebbe fatta. Era già lontano. L’hanno riportato indietro che zoppicava, ferito ad una gamba. L’hanno spinto accanto agli altri, già schierati, in attesa.”

L’ultimo volto che vedo, abbandonando la piazza, è quello di un repubblichino, che ride istericamente. Quel riso indica l’infinita distanza che ci separa. Siamo gente di un pianeta diverso. Anche noi combattiamo una dura lotta, in cui si dà e si riceve la morte. Ma ne sentiamo tutto l’umano dolore, l’angosciosa necessità. In noi non è, non ci può essere nulla di simile a quello sguardo, a quella irrisione di fronte alla morte.

Loro ridono. Hanno appena ucciso 15 uomini e si sentono allegri. Contro quel riso osceno noi combattiamo. Esso taglia nettamente il mondo: da un lato la barbarie, dall’altro la civiltà. I cordoni di repubblichini sono sempre fitti. Ad ogni passaggio, ad ogni posto di blocco, mi imbatto nella loro insolenza, nella loro spavalda vigliaccheria: mitra ostentati, bombe a mano al cinturone, facce feroci, lugubri camicie nere.

Ancora una volta, come in Spagna di fronte alla spietata ferocia degli ufficialetti nazisti, si rivelano i due mondi in antitesi, i due modi opposti di concepire la vita.

Noi abbiamo scelto di vivere liberi, gli altri di uccidere, di opprimere, costringendoci a nostra volta ad accettare la guerra, a sparare e ad uccidere. Siamo costretti a combattere senza uniforme, a nasconderci, a colpire di sorpresa. Preferiremmo combattere con le nostre bandiere spiegate, felici di conoscere il vero nome del compagno che sta al nostro fianco. La scelta non dipende da noi, ma dal nemico che espone i corpi degli uccisi e definisce l’assassinio “un esempio.”

La belva ormai incalzata da ogni parte, si difende col terrore”.

Fonte

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Piazza Almirante e Berlinguer. Non è una fake

L’oltraggiosa decisione da parte del consiglio comunale di Terracina. La protesta dell’Anpi cittadina

b1-1Al grande libro degli oltraggi, oggi particolarmente di moda, si aggiunge una pagina del tutto nuova. Una pagina nera. Letteralmente. Si chiama “Piazza Almirante e Berlinguer”. Non è una fake. È la mozione approvata dal consiglio comunale di Terracina (Latina) per intitolare il piazzale antistante Villa Tommasini. 12 a favore, 8 astenuti, un voto contrario. In giunta, una lista civica con persone di Fratelli d’Italia. A nulla sono servite le ripetute prese di posizione dell’Anpi cittadina per contrastare questa decisione. Nell’ultima, in data 24 luglio, è scritto fra l’altro che “dedicare una piazza pubblica a Giorgio Almirante vuol dire celebrarlo e celebrare il fascismo. Consentire la celebrazione di Giorgio Almirante significa disattendere e violare il dettato della Costituzione”. E ancora, in un’altra nota: “Non si può parlare di senso dello Stato riferendosi a chi ha aderito fino alla fine ad una dittatura che ha caratterizzato il periodo peggiore del nostro Paese”; “un fascista è sempre un fascista, e nel nostro paese non può e non deve, come sottolinea anche la legge, esserne tramandato l’esempio”.

C’è da aggiungere che accostare questo nome a quello di Enrico Berlinguer ne segna una stomachevole violazione della memoria. È evidente che dietro tale scelta c’è l’idea miserabile di legittimare un’intera storia, quella del fascismo, attraverso l’equiparazione di due figure diametralmente opposte e inconciliabili, simbolo l’una del ventennio e della persistenza del fascismo nel secondo dopoguerra, e l’altra della lotta per l’attuazione della Costituzione e del contrasto irriducibile ed irreversibile ad ogni fascismo ed autoritarismo.

È il sudario di una presunta “definitiva pacificazione nazionale” (così definita dal consigliere Giuseppe Talone di Fratelli d’Italia, già candidato nel 1993 per il Msi), che mette nello stesso mazzo perseguitati e persecutori, vittime e carnefici, fascisti a antifascisti, razzisti e antirazzisti. La prossima sarà piazza Mussolini e Gramsci?

È superfluo ribadire le ben note responsabilità di Giorgio Almirante nel ventennio: dalle sue parole sul periodico “La difesa della razza”, di cui era segretario di redazione, al famoso bando da lui sottoscritto che minaccia la pena di morte “mediante fucilazione alla schiena” per i renitenti alla leva di Salò; ed anche le sue responsabilità successive, e cioè l’aver guidato per decenni il Msi, partito che incarnava la continuità col disciolto partito fascista. “Piazza Almirante e Berlinguer” è il compendio, l’epitome, di una serie di episodi di forzata rivalutazione del fascismo che oramai da anni avvelenano la vita pubblica dell’Italia.

È un evento orribile per Terracina, ma in realtà per tutto il Paese. Davanti ad uno sfregio alla coscienza civile degli italiani non ci possono essere mezze tinte. C’è bisogno di una voce unica e unita di tutte le forze democratiche antifasciste, c’è bisogno urgente di una scelta di parte, la parte della repubblica democratica e della Costituzione antifascista.

di Gianfranco Pagliarulo da Patria Indipendente

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25-04-1945 – 25-04-2020 – 75° Anniversario della Liberazione.

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Gentile sindaco,

leggiamo il comunicato stampa sul sito del Comune di Senago a proposito della celebrazione del 25 aprile, anniversario della Liberazione. Ci piace constatare che sia subito ricordato a tutti i Senaghesi che appunto il 25 aprile si celebra l’anniversario della Liberazione.

Nel seguito del comunicato però il concetto appare offuscato.

Non è pedanteria, ma senso civile e responsabilità sociale che ci fa sottolineare che la giornata del 25 aprile non è dedicata ai caduti di tutte le guerre (e, perdoni: guerre, non Guerre, ché né grammatica né etica permettono la maiuscola), ma è l’anniversario della Liberazione. Si ricorda la lotta di donne e uomini contro il regime nazista e fascista. Il 25 aprile 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia ordina l’insurrezione generale di tutti i territori dell’Italia ancora occupati dai nazi-fascisti.

La Liberazione avviene quindi per opera dei partigiani. Immaginiamo che nel comunicato stampa ci si riferisca a loro quando si scrive di visioni e pensieri differenti.

Ci dispiace però che la parola ‘partigiani’ non ci sia neppure una volta nel messaggio del Comune di Senago. Eppure, sarebbe stata quanto mai appropriata quest’anno, quando la malattia ha portato via molti partigiani. Ci sarebbe piaciuto leggere nel comunicato un ricordo esplicito alla loro lotta di Liberazione, contro il fascismo (altra parola stranamente assente nel comunicato). Rendendo omaggio al Sacrario, il 25 aprile ha deposto la corona anche in onore di Luigi Mantica ed Emilio Lattuada, due civili che hanno dato la vita per la Libertà dal nazifascismo. Non appartenevano né alle Forze armate, né alle Forze dell’ordine. Erano un infermiere ed un centralinista che prestavano il loro lavoro nell’Ospedale di Garbagnate Milanese. Nel novembre del 1944 furono trascinati via, insieme con altri operatori della Sanità, dai nazisti e dalle Brigate Nere, fascisti con sede a Bollate. Quel giorno fu ammazzato di botte Mantica; Lattuada perì nel campo di concentramento di Flossemburg.

Infine, non possiamo che condividere il disagio espresso nel comunicato per l’anomalia delle celebrazioni del 25 aprile 2020: avremmo voluto essere in tanti a Senago, come a Milano. Purtroppo le circostanze straordinarie non lo hanno permesso e dunque ci si è giustamente attenuti alle disposizioni nazionali, nel pieno rispetto delle norme della sicurezza, a cui va senz’altra data priorità in questo momento.

I cittadini senaghesi hanno partecipato dai balconi, intonando ‘Bella ciao’, a ricordo dei partigiani, in occasione dell’anniversario della Liberazione.

La ringraziamo per l’attenzione e la salutiamo cortesemente,

Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) sezione di Senago

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25 Aprile 2020 – 75° Anniversario della Liberazione.

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Iniziano con il mese di aprile le celebrazioni del 75° Anniversario della Liberazione che, quest’anno, non potranno svolgersi nelle forme consuete, a causa della pandemia di coronavirus.

Se si vuole intendere cosa fu la Resistenza italiana non si deve fare riferimento soltanto al periodo che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945.

La Resistenza non attese Kesselring: essa aveva già avuto inizio sin da quando era cominciata l’oppressione, cioè sin da quando lo squadrismofascista aveva iniziato la sistematica distruzione delle Camere del lavoro, delle cooperative, delle organizzazioni operaie e contadine sia socialiste che cattoliche, seminando il terrore e la morte.

Senza l’opera dei primi oppositori al regime fascista tempratisi attraverso processi e carceri non ci sarebbe stata la nostra Resistenza, che tra le sue prime vittime ha visto uomini come Giacomo Matteotti, Antonio Gramsci, Giovanni Amendola, i fratelli Rosselli, Don Minzoni, Piero Gobetti.

La Resistenza ha avuto i suoi antecedenti più diretti nella partecipazione degli antifascisti a difesa del governo repubblicano, nel corso della guerra civile spagnola.

La Resistenza italiana si è caratterizzata per una sua particolare complessità.

Non è stata solo delle partigiane, dei partigiani del Corpo Volontari della Libertà che agivano nelle montagne e nelle città, ma di quelle unità italiane che combatterono e caddero nelle isole dell’Egeo, a Cefalonia, a Lero, a Rodi; dei militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943, deportati nei lager tedeschi (furono complessivamente 650.000, 50.000 dei quali non fecero ritorno) che preferirono la prigionia alla promessa di rientrare in Italia, subordinata alla loro adesione alla Repubblica di Salò; degli oppositori politici al regime nazifascista, dei lavoratori deportati nei campi di concentramento a seguito del grande sciopero generale del marzo 1944; degli ebrei che videro spegnere la propria vita nei campi di sterminio nazisti.

Notevole e di grande peso fu la partecipazione delle donne alla lotta di Liberazione che conquistarono il diritto di voto, di cui erano prive, militando nelle file della Resistenza italiana.

C’è stata quindi una Resistenza armata e una Resistenza non armata: entrambe hanno svolto un ruolo fondamentale per la Liberazione del nostro Paese dal nazifascismo.

Determinante fu il largo schieramento unitario di tutti i partiti, dal Partito comunista a quello monarchico che, all’indomani dell’8 settembre 1943 costituirono il Comitato di Liberazione Nazionale per “chiamare gli italiani alla lotta e alla Resistenza”.

E Milano, Città Medaglia d’Oro della Resistenza ha voluto ricordare i Combattenti milanesi per la Libertà incidendo i loro nomi sotto la Loggia dei Mercanti, luogo simbolo della Resistenza milanese.

Roberto Cenati – Presidente Anpi Provinciale di Milano

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10-02-2020 “Giorno del Ricordo”

                                                                                                                                                                        IMG-20200207-WA0003Negazionismo e revisionismo oltre ad essere inaccettabili e vergognose sono paradossali. Siamo al ribaltamento della realtà. L’unica vera operazione di revisionismo, in corso ormai da anni, è la strumentalizzazione del “Giorno del Ricordo”. Questa sì è un’operazione revisionista, sponsorizzata dalle forze di estrema destra in Italia.

 

Nel periodo del Giorno del Ricordo, tutti gli anni, viene fatta una lettura parziale e ideologicamente orientata della storia. Non si può parlare del dramma delle foibe senza inserirlo nel contesto storico.

Carlo Azeglio Ciampi, il presidente della Repubblica che promulgò la legge istitutiva del Giorno del Ricordo, nel 2005 emise un comunicato nel quale rivolse il proprio pensiero “a coloro che perirono in condizioni atroci nelle Foibe (…) alle sofferenze di quanti si videro costretti ad abbandonare per sempre le loro case in Istria e Dalmazia”, aggiungendo: “Tanta efferatezza fu la tragica conseguenza delle ideologie nazionalistiche e razziste propagate dai regimi totalitari responsabili del secondo conflitto mondiale e dei drammi che ne seguirono”.

Comprendere la storia e i drammi del ‘900, respingere ogni tentativo di legittimazione del fascismo e della sua propaganda, ricordandone i crimini spesso taciuti.

Noi ricordiamo tutto: l’occupazione fascista dei territori istriani ed ex-jugoslavi, la ventennale dittatura, le politiche coloniali con cui si costrinsero le popolazioni a processi di italianizzazione forzata, l’odio razziale, le esecuzioni sommarie, gli incendi di interi villaggi, le operazioni squadriste, i campi di concentramento fascisti.

Mentre ogni anno si parla solo di foibe, in pochi in Italia, hanno mai sentito parlare, ad esempio, del campo di concentramento di Rab, oggi località turistica, ma 70 anni fa lager fascista nel quale persero la vita migliaia di civili jugoslavi, bambini compresi.

Non cedere ad una ricostruzione parziale ma contribuire a far conoscere ad un vasto pubblico le atrocità commesse dai fascisti italiani in Ex-Jugoslavia è il nostro obiettivo.

Guerra, violenza e morte seminate dal fascismo in tutta Europa non possono essere rimosse con un colpo di spugna, con i libri di Pansa o con i giorni del ricordo parziale.

A supporto di queste considerazioni, invitiamo all’approfondimento della complessa vicenda istriana e jugoslava e alla visione, tra i tanti materiali disponibili anche online, del documentario “Fascist Legacy” realizzato qualche anno fa dalla BBC, un utile contributo per non cadere nelle semplificazioni e nelle forzature revisioniste che l’estrema destra porta avanti da anni.

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 Bambini e un adulto prigionieri nel campo di concentramento fascista sull’isola di Rab (Croazia)

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27 gennaio “Giornata della Memoria”

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di | gennaio 23, 2020 · 1:38 PM

25 aprile 2017 – Milano, Festa della Liberazione

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8 settembre 1943

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La stessa cosa, intendi cosa voglio dire, la stessa cosa… – Kim s’è fermato e indica con un dito come se tenesse il segno leggendo; – la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena.

Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto loro dall’altra.

Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe cosi, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi.

Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.

— da Il sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino

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