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L’“annus horribilis” e il referendum

Assieme alle regionali e alle amministrative il voto referendario. Il tema della rappresentanza smarrita e questa diminuzione del numero dei parlamentari. Operare perché il parlamento torni ad essere specchio delle contraddizioni sociali del Paese e luogo del conflitto e della mediazione

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“Anno bisesto tutte le cose van di traverso”, “Anno bisesto che passi presto”, “Anno bisestile chi piange e chi stride”: un’antica tradizione di proverbi dipinge gli anni bisestili come particolarmente infausti. Non ci vuol molta fantasia per considerare il 2020 annus horribilis, un tempo che rimarrà nella storia del mondo per la micidiale pandemia con le sue luttuose conseguenza e per la crisi economica i cui effetti traumatici si iniziano appena a percepire.

Sarà un caso, ma è anche l’anno del referendum sulla riduzione del numero di parlamentari. Il ruolo del parlamento è tema essenziale per il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche, già sotto stress da tempo: un parlamento che troppe volte si riduce a cassa di risonanza delle decisioni del governo, spesso luogo di inverecondi eventi – vedi, ultimo di una lunga serie, l’espulsione di Sgarbi dall’emiciclo a furor di commessi dopo gli irripetibili insulti ad una sua collega -, eletto da una percentuale sempre inferiore di cittadini. Insomma, un lungo percorso di svuotamento di fatto del ruolo delle Camere come organo della rappresentanza politica in cui si esercita la sovranità popolare. L’origine di tale declino data – più o meno – da quando si sono posti in alternativa, quasi in conflitto, due parole difficili: rappresentanza e governabilità. Che vuol dire rappresentanza? Agire su consapevole mandato di altri, in loro nome. Che vuol dire governabilità? Garantire, dati determinati requisiti, continuità all’azione del governo. Il mantra dominante, oramai da decenni, è stato più o meno questo: la rappresentanza limita, diminuisce, frena la governabilità. Nel mondo d’oggi la governabilità è tutto, ergo potenziamola. Risultato finale: gli elettori si sentono sempre meno rappresentati dal parlamento, ragion per cui cresce l’astensione; la governabilità è spesso in fibrillazione per tutt’altra ragione rispetto alla rappresentanza, e cioè per le contraddizioni o i veri e propri spasmi interni ai partiti che governano. Esempio luminoso come il sole a mezzogiorno: la crisi di governo avviata da Salvini l’8 agosto 2019, quando ha scientemente fatto cadere il suo governo “giallo-verde”, invocando elezioni impossibili, data la chance della formazione di un nuovo governo con un’altra maggioranza. A ben vedere si scopre che la grandissima parte delle crisi di governo degli ultimi decenni è stata causata da scelte politiche del leader o del partito, e non certo da un “eccesso di ruolo” di rappresentanza del parlamento.

Dato tutto ciò, e data la evidente crisi in tutto l’occidente della democrazia e della politica, una persona normale avrebbe atteso provvedimenti seri e ponderati tesi a rafforzare in modo profondo la rappresentanza per restituire fiducia ai cittadini e ruolo al parlamento. Già. Ma qual è il ruolo del parlamento? Il parlamento disegnato dalla Costituzione dovrebbe essere, con uno slogan, “lo specchio del Paese”, cioè il luogo dove si confrontano rappresentanze proporzionali di opinioni e interessi diversi e, tramite il gioco del conflitto e della mediazione, si approvano le leggi.

La domanda essenziale è perciò molto semplice: la specifica riduzione del numero dei parlamentari prevista dalla riforma va in questa direzione o va in direzione opposta? L’opinione dell’Anpi è la seconda. Vediamo perché.

Il parlamento passerà dagli attuali 630 deputati a 400 e dagli attuali 315 senatori a 200. È un taglio di più del 30%, non fondato su alcuna ragionevole analisi e che sembra rispondere esclusivamente a quattro ragioni di propaganda: 1) La riduzione della spesa; una riduzione che consentirebbe un risparmio irrilevante; chi ci dice che domani, col pretesto del risparmio, non si taglino altri strumenti di democrazia rappresentativa? Il punto è che la democrazia ha un costo che in realtà è un investimento a favore della rappresentanza. Un conto è ridurre con buon senso spese superflue, altro conto è tagliare spese necessarie. Se non compro più sigarette, oltre al risparmio, ne guadagnerà la mia salute. Ma se non pago la bolletta della luce, fino a prova contraria mi tagliano la corrente. La “riduzione dei costi” come valore in sé è uno dei tanti flatus vocis dell’antipolitica, il cui risultato è il rischio di un pericoloso scivolamento verso l’antidemocrazia; 2) La campagna contro la “casta”, generica accezione qualunquista che mette sotto accusa il parlamento in quanto tale. Da qualche decennio la politica in generale e il parlamento in modo specifico sono identificati come il brodo di coltura della “casta”, fruitrice di immotivati privilegi e sproporzionati emolumenti. Da un lato una casta politica dipinta come brutta e cattiva, dall’altro interi segmenti sociali con redditi stratosferici e privilegi da milleeunanotte coperti da un muro di silenzio (meglio non far nomi per carità di patria). In altri termini: quando esplodono le diseguaglianze (cioè oggi) si difende una struttura sociale rigorosamente classista, cioè che conserva ed esalta le diseguaglianze, e si offende una struttura della rappresentanza politica invece di restituirle la sua funzione costituzionale. Tutto ciò non è nuovissimo: le polemiche contro il “parlamentarismo” affondano nei tempi del secolo scorso e hanno storicamente aperto un varco nel bastione della democrazia. 3) L’Italia è il Paese con più parlamentari d’Europa. Troppe poltrone. Del tutto falso. Nei Paesi Ue l’Italia, rispetto al numero di abitanti, ha un numero di deputati medio-basso, più di Francia, Olanda, Spagna e Germania, e meno di tutti gli altri 22 (ventidue) Paesi (fonte: Dossier degli uffici studi di Camera e Senato del 7 ottobre 2019). 4) Meno parlamentari, così il parlamento sarà più efficiente. Dipende da cosa intendiamo per efficienza. Il parlamento non è un’impresa. L’Italia reale sarà meno rappresentata. Un solo esempio: a rischio di scomparsa le minoranze linguistiche. Non solo: sarà più precario e macchinoso il funzionamento delle Commissioni e degli altri organi delle Camere.

Andiamo avanti. Mentre prima si contavano 96.006 abitanti per deputato, con la riforma si conteranno 151.210 abitanti per deputato. L’Italia diventa il Paese Ue col più alto numero di abitanti per deputato. Sarà ovviamente più difficile rappresentare un numero così elevato di cittadini.

Intendiamoci: una ragionevole riduzione del numero dei parlamentari potrebbe in linea di principio essere accettabile, purché motivata, limitata e congruente. Non è questo il caso.

In sostanza tale riforma non rende il Parlamento più rappresentativo, non restituisce fiducia ai cittadini, letica la “pancia” degli odiatori professionali (quelli che odiano la politica, il parlamento, il confronto, il conflitto, la composizione), apre problemi complicatissimi: occorrerebbe una contestuale nuova legge elettorale che salvaguardi per quanto possibile i partiti minori dalla loro cancellazione, e perciò una legge proporzionale. Si parla di uno sbarramento del 5%. Con questo sbarramento nella storia italiana il Pri di La Malfa – partito piccolo ma fortemente rappresentativo nel Paese dei primi decenni del dopoguerra – difficilmente sarebbe entrato in parlamento. Ma occorrerebbero anche nuove norme per l’elezione del Presidente della Repubblica. Art. 83 della Costituzione: “Il Presidente della Repubblica italiana è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri. All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze”. Se il parlamento passa da 965 membri a 600 membri con tre delegati per regione si scombina il potere di elezione: meno potere il parlamento, più potere le Regioni. Detto per inciso: non pare che l’attuale attribuzione di poteri alle Regioni abbia rappresentato il modo migliore per contrastare la pandemia (ma questa è un’altra storia).

In breve: il parlamento italiano ha un problema, e cioè l’urgenza di riconquistare la sua centralità attraverso un più forte ruolo di rappresentanza ed uno sganciamento dalle decisioni del governo (decreti legge, mozioni di fiducia). La riforma peggiora la situazione ed aggiunge problema a problema.

Infine: con i soliti anglismi  che stanno butterando la  lingua italiana, si andrà all’election day. Il votare assieme per una importante modifica della Costituzione che avrà effetti permanenti sulla vita istituzionale e per un composito turno di elezioni regionali e amministrative, cioè l’esercizio ordinario della democrazia rappresentativa, è una evidente diminuzione del valore della scelta referendaria. Il voto referendario sarà trascinato dal voto delle amministrative e delle regionali, diventando una specie di cenerentola della tornata elettorale. Sarà irrealizzabile promuovere nel Paese una riflessione seria sul ruolo del Parlamento e della politica oggi quanto mai urgente, per evitare che scelte di questo peso siano decise in modo superficiale. Il cittadino sarà di fatto privato del diritto di informare ed informarsi, e di conseguenza la sua scelta sarà condizionata. Per questo l’accorpamento della votazioni, diventato legge a metà giugno, sembra un grave errore e una irrimediabile forzatura.

Conclusione: con la riforma si appanna ulteriormente l’immagine del parlamento come luogo dove esercitare il pluralismo della rappresentanza ed il virtuoso conflitto fra interessi sociali diversi. Bene sarebbe invece ricominciare da una riforma del sistema politico in attuazione dell’art. 49 Cost. (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”), affinché i partiti diventino fucine di idee e di progetti di trasformazione, il cittadino torni a riconoscersi nel parlamentare eletto, il parlamento torni ad essere specchio delle contraddizioni sociali del Paese e luogo della mediazione. La crisi indotta dagli effetti della pandemia ci racconta che il tempo sta scadendo, che la fiducia nelle istituzioni è a fondamento della loro credibilità, e assieme che l’intervento pubblico è garanzia della coesione sociale e della tenuta democratica. Ma ci dice anche dei gravi pericoli che corre la democrazia, come insegna la deriva autoritaria di tanti Paesi.

Con la demagogia non si va da nessuna parte. Ci aspettano mesi pesantissimi che avranno come oggetto le condizioni di vita di milioni e milioni di donne e di uomini. In questo scenario sta a tutti noi riprendere, con pazienza e serenità, il filo di una discussione che, a partire dai temi della lotta alle diseguaglianze, ponga al centro la questione della rappresentanza e del ruolo del parlamento come luogo di difesa del lavoro e del reddito. Perché in parlamento si rappresentano gli interessi. Ed è bene oggi che si difendano in primo luogo gli interessi dei lavoratori, dei più poveri, dei ragazzi a tempi determinato, dei ceti medi decaduti, dei disoccupati.

Annus horribilis, questo 2020!

di Gianfranco Pagliarulo da Patria Indipendente

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Documento del Comitato Nazionale Anpi su referendum 29 marzo.

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La legge che verrà sottoposta al voto, col referendum del 29 marzo, non corrisponde in realtà ad alcuna necessità concreta e rappresenta semplicemente una manifestazione di quella antipolitica che si fa circolare nel Paese creando un grave discredito verso le istituzioni fondamentali della Repubblica.

Questa riduzione del numero dei parlamentari – frutto di improvvisazione e opportunismo – non corrisponde ad alcuna esigenza reale, anzi investe negativamente il tema della rappresentanza, incidendo sulla stessa struttura istituzionale delineata nell’art. 1 della Costituzione, ponendo seri problemi per la composizione del Parlamento che sia veramente rappresentativa di tutte le esigenze e di tutte le realtà del Paese, e mettendo, insomma, a repentaglio, la funzionalità e la centralità del Parlamento stesso.

Questa diminuzione del numero di parlamentari renderà precario e macchinoso il funzionamento delle Commissioni e degli altri organi delle Camere. Per di più occorrerà riscrivere immediatamente la legge elettorale al fine di garantire in Parlamento la presenza, a rischio con tale riforma, di tante forze politiche, e rivedere i criteri di partecipazione alla elezione del Presidente della Repubblica da parte dei grandi elettori delle Regioni.

La stessa riduzione di spesa è ridicola, posta a fronte di tante altre spese che le istituzioni sopportano inutilmente e che da anni vengono segnalate con diversi progetti da esperti, le cui indicazioni non vengono mai raccolte. Insomma, una legge – quella sottoposta a referendum – che non riduce le spese se non in modo “simbolico” ed incide negativamente su un esercizio della sovranità popolare che sia davvero fondato sulla rappresentanza.

Il giudizio, dunque, non può che essere assolutamente negativo sotto ogni profilo. Anche, e soprattutto perché peggiorerebbero i problemi reali delle istituzioni e in particolare del Parlamento, che dovrebbe essere organo centrale di tutta l’attività politica e istituzionale ed invece, di fatto, è esposto da anni ad una sostanziale emarginazione.

Ciò che occorre, semmai, è ricondurre il Parlamento a quel ruolo centrale per le istituzioni e la politica che la Costituzione gli assegna, come luogo di confronto e di elaborazione, anziché ricorrere – come accade continuamente – all’abuso dei decreti legge e del voto di fiducia.

La politica deve tornare ad essere quella pensata dall’art. 49 della Costituzione, che assegna ai partiti il compito di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Un concorso che si realizza solo se avviene in Parlamento, attraverso la progettazione e l’elaborazione delle misure occorrenti per rafforzare la democrazia, non solo nelle sue forme esteriori, ma anche e soprattutto nei suoi contenuti.

Per tutte queste ragioni, l’ANPI dà il NO come indicazione di voto e ritiene nel contempo che non basti l’espressione di un voto negativo, ma occorra promuovere nel Paese un’ampia riflessione sul ruolo del Parlamento e della politica, in stretta aderenza ai princìpi costituzionali.

Realizzerà, dunque, in piena autonomia e senza aderire ad alcun Comitato esterno, iniziative culturali e politiche.

IL COMITATO NAZIONALE ANPI

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No al Taglio del Parlamento

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Appello per la costituzione del comitato senaghese per il No al taglio dei Parlamentari.

Il taglio del Parlamento è il taglio della rappresentanza popolare, falsamente spacciato per risparmio. Così facendo si riduce la discussione, il confronto nelle istituzioni ed anche la voce delle minoranze.

Facciamo appello a cittadini, forze sociali democratiche, antifasciste e antirazziste in difesa della Costituzione per l’ennesima volta messa in discussione.

Anche a Senago si costituirà il Comitato per il NO al Referendum Costituzionale del 29 marzo ed il primo appuntamento è fissato per martedì 18 febbraio alle ore 21 presso la Casa delle Associazioni in viale Risorgimento 47.

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W la Costituzione

sana e robusta costituzione

Ancora una volta ha vinto la Costituzione, contro l’arroganza, la prepotenza, la mancanza di rispetto per la sovranità popolare e i diritti dei cittadini. Hanno usato tutti gli strumenti possibili, il denaro, la stampa, i poteri forti, gli stranieri; sono ricorsi al dileggio e alla diffamazione degli avversari, ma il popolo italiano non si è lasciato convincere e ha dato una dimostrazione grandiosa di maturità. Noi che abbiamo fatto una campagna referendaria rigorosa, sul merito, con l’informazione e il ragionamento, siamo felici e orgogliosi di questo successo. Ora finalmente si potrà pensare di attuare la Costituzione nei suoi principi e nei suoi valori fondamentali, per eliminare le disuguaglianze sociali, privilegiare lavoro e dignità della persona, per riportare la serietà, l’onestà e la correttezza nella politica e nel privato. Alle sorti del Governo provvederà il Presidente della Repubblica e noi ci rimettiamo alla sua saggezza. La cosa importante è che riprenda il confronto politico e democratico e che prevalga su ogni altra cosa la partecipazione dei cittadini. Questa è una vittoria anche dell’ANPI, ma soprattutto della democrazia e ripeto, con forza, della Costituzione.

Carlo Smuraglia – Presidente Associazione Nazionale Partigiani d’Italia

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Difendiamo la Costituzione

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Alle cittadine e ai cittadini raccomandiamo un voto consapevole e responsabile.

Non si tratta di una legge ordinaria ma della Costituzione, la nostra Carta fondamentale.
Modifiche sbagliate e destinate a non funzionare, così come lo stravolgimento del sistema
ideato dai Costituenti, avrebbero effetti imprevedibili e disastrosi per l’equilibrio dei poteri, per la rappresentanza, per l’esercizio della sovranità popolare, in sostanza per la stessa democrazia, che invece va rafforzata, potenziata e difesa con la piena attuazione della Costituzione repubblicana.

Consapevolmente e responsabilmente, votate NO.

  • Carlo Smuraglia, Presidente Nazionale ANPI;
  • Susanna Camusso, Segretaria Generale CGIL;
  • Francesca Chiavacci, Presidente Nazionale ARCI.

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Salviamo la Costituzione

sana e robusta costituzione

La Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza sta correndo un grave rischio, quello del suo stravolgimento. L’ANPI ha espresso un giudizio estremamente negativo sul testo della legge di revisione costituzionale, approvato da una maggioranza, peraltro variabile e ondeggiante, prevalsa nel voto parlamentare, anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche.

Invitiamo tutti i cittadini a votare NO il 4 dicembre perchè siamo di fronte ad una revisione pasticciata che renderebbe il funzionamento delle istituzioni estremamente confuso e farraginoso. La modifica di ben 47 articoli della Costituzione avrebbe un pericoloso impatto sui principi fondamentali. Se vincesse il sì ci troveremmo di fronte ad un Senato, non più eletto dai cittadini ma, che pur privo dell’investitura popolare, eserciterebbe  importanti funzioni legislative. Il primo ad essere toccato sarebbe quindi l’articolo 1 della Costituzione che recita : “La sovranità appartiene al popolo”. Inoltre verrebbe intaccato anche un altro principio fondamentale espresso nell’articolo 5 “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”. La revisione prevede infatti che su proposta del governo lo Stato possa intervenire anche in materie di competenza esclusiva delle Regioni. In tal modo le Regioni perderebbero quasi completamente la loro autonomia legislativa.

La revisione costituzionale porterebbe inevitabilmente al rafforzamento del potere esecutivo. Il suo intreccio con la legge elettorale che prevede un premio di maggioranza esorbitante alla Camera dei Deputati per la lista vincente, cambierebbe sostanzialmente la forma di governo. La democrazia costituzionale ne risulterebbe stravolta. I cittadini rimarrebbero senza voce: con un Senato non più eletto dal popolo ma da consiglieri regionali che si eleggono fra loro, con una Camera dove domina una maggioranza artificiale creata distorcendo l’esito del voto. Una Camera in cui la maggioranza dominerebbe le istituzioni, estendendo la sua influenza alle stesse istituzioni di garanzia. Se questo scenario dovesse prevalere la nostra non sarebbe più una Repubblica parlamentare.

E’ da decenni che gli Italiani stanno attendendo cambiamenti. L’attesa non riguarda però la Carta Costituzionale che è gia stata modificata numerose volte. L’attesa è per il cambiamento del Paese, per riforme che rendano la vita di ognuno degna di essere vissuta. Ma per far questo non si può pensare, come si sostiene, di “modernizzare”, o meglio stravolgere la Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Il Paese lo si cambia attuando la Costituzione nei suoi principi e nei suoi valori fondamentali, a cominciare dall’art.1 che recita “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

Per tutti questi motivi invitiamo gli elettori a votare NO il 4 Dicembre.

ANPI Provinciale di Milano

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L’InCostituzione

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La Costituzione italiana non sarà più la stessa. Per il clima di scontro nel quale è stata approvata la sua “riforma”, sarà percepita come il frutto di un colpo di mano, di un atto di prepotenza e prevaricazione sul Parlamento e sulla società italiana. Sarà la costituzione non della concordia ma della discordia; non del patto pre-politico, ma della rottura del patto implicito in ogni momento costituente: una costituzione, in breve, che divide e non che unisce come dovrebbero invece fare tutti i patti costituzionali.
Piero Calamandrei diceva che in occasione del dibattito parlamentare su qualunque revisione della Costituzione i banchi del governo dovrebbero restare vuoti. Questa invece è una riforma promossa e interamente gestita dal governo, al punto che su di essa il presidente del Consiglio è giunto al punto di mettere la fiducia da parte dell’elettorato.
La subalternità dei governi ai mercati impedisce loro di attuare il progetto costituzionale disegnato dalle Costituzioni, come invece in gran parte fu fatto nei primi trenta anni della nostra Repubblica. Aggressioni al lavoro, alla sanità e alla scuola pubblica sarebbero state inconcepibili fino a tutti gli anni Settanta, allorquando era ancora vivo il ricordo della mancanza di limiti al potere esecutivo. Oggi il crollo dei partiti e il credo liberista rendono del tutto inattuale la Costituzione e l’insieme dei suoi valori, dall’uguaglianza al diritto al lavoro, fino ai diritti sociali.
Luigi Ferrajoli (professore emerito di filosofia del diritto)

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Puntualizzazioni riguardo il Referendum sulla Riforma Costituzionale

Le idee di chi scrive su questo blog, a riguardo del prossimo Referendum sulla Riforma Costituzionale, sono sicuramente chiare e ben note ai lettori. E’ netta la nostra presa di posizione a favore del No e la partecipazione militante dell’ANPI per respingere la cosiddetta Riforma Boschi-Renzi. 

Siamo ovviamente di parte e non ci piace dipingere un mondo nel quale si possa fare finta di recitare contemporaneamente ed ipocritamente il ruolo di diavolo e di acquasanta e con troppa leggera disinvoltura. Prendendo in prestito un passo del Nuovo Testamento ci verrebbe facilmente da dire che“Non si può servire Dio e Mammona”Non si può stare contemporaneamente su entrambi i fronti di una barricata.

Con un certo imbarazzo ci tocca sottolineare che una rivista, che a quest’ora avrà già raggiunto diverse famiglie senaghesi, trova al suo interno un editoriale del proprio direttore che, scrivendo sul prossimo Referendum, che probabilmente dovrebbe svolgersi a novembre-dicembre, cerca di riassumere simultaneamente le ragioni del Sì e le motivazioni del No.

Peccato che nel fare questo si illustrino le ragioni del Sì in modo anche correttamente partigiano, lo stesso direttore ci pare sia membro del Comitato locale per il Sì alla riforma. Non c’è nulla di male nell’essere di parte. Chi tra noi ha ancora un po’ di memoria storica e con il cuore che batte ancora a sinistra amerà senz’altro il passaggio di Antonio Gramsci relativo all’essere di parte ed allo schierarsi (ndr Odio gli indifferenti). Dicevamo che purtroppo nell’editoriale della rivista di cui sopra, sembrano chiare le ragioni del Sì, ma invece appare decisamente caricaturale il disegno che descrive le motivazioni di chi sostiene il No alla Riforma.

Non vogliamo calarci nel ruolo dei soliti Professoroni così invisi al premier del nostro paese, ma ci pare che l’editoriale di Senago – Noi e la Città contenga alcune inesattezze.

Ne elenchiamo solo un paio per sgomberare il campo da notizie fuorvianti e banalmente false.

  1. Non esiste un abbassamento automatico del quorum per i referenda abrogativi. Questo quorum (il numero di partecipanti al voto perchè un referendum venga dichiarato valido) viene ridotto solamente se le firme raccolte per indire la consultazione popolare hanno raggiunto la quota di 800mila invece delle consuete 500milaNon è affatto una cosa semplice. Chi ha avuto anche poche esperienze di raccolta firme ricorderà che un numero così elevato è stato raggiunto in poche e rare occasioni. Il tempo per la raccolta firme è di soli tre mesi e stante la forte crisi di partiti, movimenti, sindacati ed associazioni e di tutti i corpi intermedi di questo paese risulta lampante come il risultato sia pressochè irraggiungibile. Probabilmente per la raccolta firme sull’acqua pubblica si superò il milione di firme, ma purtroppo sappiamo quanto l’esito di quel referendum sia rimasto inascoltato e soprattutto siano state disattese le richieste dei cittadini. Un buon governo dovrebbe vigilare sul rispetto per le decisioni del popolo sovrano. 
  2. Si accenna nel già citato editoriale, secondo chi scrive un po’ populisticamente nell’ottica di inseguire ed ammansire un certo grillismo che prende sempre più piede, che vi saranno 315 stipendi da senatore in meno. Ebbene il Senato non è completamente cancellato. Forse sarebbe stato addirittura meglio eliminarlo totalmente, tuttavia in presenza di una legge elettorale proporzionale.  Con il combinato disposto della Legge Elettorale Italicum e della Riforma Costituzionale crediamo proprio che lo scenario non sia dei più democratici possibili. I 100 residui senatori, un po’ sindaci, un po’ consiglieri regionali che si eleggeranno tra loro, un po’ come avviene già per i membri del Consiglio della Città Metropolitana, finiranno sicuramente per svolgere male entrambe le funzioni. Ebbene questi nuovi senatoririceveranno comunque degli emolumenti e/o dei rimborsi e quindi sarebbe bene non buttare fumo negli occhi, parlando di un netto risparmio di 315 stipendi senatoriali. Ad oggi non è ancora chiaro quanto sarà il reale risparmio che si avrà una volta approvata questa nuova versione della Costituzione. I più ottimisti parlano di circa il 9% in meno della spesa attuale. Non certo la rivoluzione promessa !!

Crediamo, ma è solo una nostra modesta opinione, che, per amore della democrazia e di un dibattito franco, anche tanti giornali locali dovrebbero ospitare espressioni e motivazioni di voto dando la parola a rappresentanti delle parti a confronto. Si eviterebbero a volte molti malintesi ed alcune sintesi un po’ troppo azzardate.

Su questo sito non mancheranno, soprattutto nei prossimi due mesi, nuovi aggiornamenti ed anche appassionate discussioni sul merito del Referendum e quindi stay tuned…

 

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LA RIFORMA COSTITUZIONALE,IL FUMO E L’ARROSTO

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In questi giorni sulla riforma costituzionale e sulla nuova legge elettorale si sta spandendo una colossale quantità di fumo. Arriviamo, per favore, all’arrosto. Senza “se” e senza “ma”.

Con la nuova legge elettorale e con la riforma della Costituzione il partito che supera il 40% dei voti avrà il 54% dei seggi. Se nessun partito supera il 40% dei voti si va al ballottaggio. Chi vince ha comunque il 54% dei seggi. Questo vuol dire, per esempio, che un partito che ha avuto alle elezioni il 29% dei voti e poi ha vinto il ballottaggio, avrà il 54% dei seggi della Camera, pari a 340 sul totale di 630. A tutti gli altri partiti, il cui totale, nell’esempio, è pari al 71% dei voti, spetta il 46% dei seggi, pari a 290 seggi.

Questo partito che ha vinto il ballottaggio, forte del suo 54% dei seggi, formerà il governo (potere esecutivo), ma siccome ha la maggioranza assoluta alla Camera, potrà decidere tutte le leggi (potere legislativo), perché il Senato avrà funzioni del tutto marginali. Sempre grazie al suo 54% dei seggi, eleggerà il Presidente della Camera (che diventa con la riforma la seconda carica dello Stato) e tutti i Presidenti delle Commissioni parlamentari; non solo: avrà il potere di modificare il Regolamento della Camera e perciò di scrivere lo Statuto delle opposizioni. Inoltre, forte della sua maggioranza, avrà, in base al nuovo art. 78, il potere di dichiarare lo stato di guerra. Avrà poi un potere largamente determinante nella elezione del Presidente della Repubblica, eletto dal Parlamento in seduta comune, ma con un Senato di soli 100 membri, e nell’elezione di un terzo del Consiglio Superiore della Magistratura.

Insomma, una concentrazione di potere mai vista nel nostro Paese dai tempi della Liberazione, senza contrappesi. Ecco perché è una questione di democrazia.
Immaginate queste nuove “regole” nella concretezza della politica dopo il voto: o vince il PD, o vince 5Stelle o vince la destra. Voi consegnereste tutto il potere ad una sola di queste forze politiche e di conseguenza ad un solo premier la cui parola – letteralmente – diventerebbe legge?

di Gianfranco Pagliarulo

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Verso una Costituzione di minoranza per una democrazia dell’onnipotenza

Onnipotenza e impotenza della politica

sana e robusta costituzione

Ebbene questa onnipotenza è ciò che si richiede alla politica perché la politica possa essereimpotente nei confronti dei mercati, subalterna nei confronti dell’economia, perché per l’appunto si trasformi in tecnocrazia, perché abdichi al proprio ruolo di governo della finanza, dell’economia, perché possa obbedire alle ingiunzioni, fare i compiti a casa, unicamente mediante la riduzione dello Stato sociale; non certamente mediante la crescita della progressività delle imposte, non certamente applicando imposte del 70/90% a redditi ultramilionari, non certamente attuando norme costituzionali sulla redistribuzione della ricchezza, non certamente facendo ciò che la politica, secondo la Costituzione, deve fare.

Si deve semplicemente eseguire, ottemperare. I Governi di destra e i Governi di sinistra sono in questo senso uguali, tant’è vero che gli scontri sono di carattere personale, sono caratterizzati dagli insulti reciproci più che dai diversi programmi e nel dibattito politico ciò che non viene mai messo in questione è il sistema di limiti e di vincoli ai poteri economici e ai poteri della finanza, che dovrebbero essere governati dalla politica.

Questo governo della politica fa parte del costituzionalismo profondo dello Stato moderno che nasce come sfera pubblica separata in grado di governare l’economia, che altrimenti sarebbe guidata naturalmente dagli istinti predatori.

I diritti politici, infatti, così come i diritti civili, i diritti di iniziativa economica, i diritti di iniziativa privata, sono diritti esercitati in funzione degli interessi personali; ciò fa parte della logica del capitalismo, non possiamo pretendere che il capitalismo abbia una logica diversa, per questo è necessaria la politica, è necessario redistribuire la ricchezza, per limitare il carattere predatorio attraverso un conflitto sociale che è stato un fattore di civilizzazione. Lo smantellamento di tutto questo è possibile solo se prima di tutto si disarma la società, e cioè si smobilitano i partiti, e i cittadini sono ridotti a spettatori davanti alle televisioni a guardare gli scontri fra i politici, che naturalmente si scontrano su questioni marginali.

Ciò che viene perseguito è prima di tutto la neutralizzazione del controllo dal basso, del radicamento sociale, e in secondo luogo la neutralizzazioni dei limiti e dei vincoli dall’alto, e cioè da parte delle Costituzioni, perché le Costituzioni sono ormai scomparse dall’orizzonte della politica.

Nessuno, infatti, grida più all’incostituzionalità di fronte ai ticket e alla monetizzazione dei diritti fondamentali in materia di salute, che si distinguono dai diritti patrimoniali perché sono per l’appunto gratuiti, universali; sono la base dell’uguaglianza, dovrebbero essere garantiti a tutti nella stessa maniera, non ci dovrebbero essere differenze in materia di sanità. Naturalmente la cosa costa, ma non è neanche un costo troppo grave, se si pensa che su centodieci miliardi – queste sono le statistiche che abbiamo avuto modo di leggere sulla spesa pubblica in materia di sanità – tutti i ticket con tutto l’apparato burocratico che comportano, producono un introito di tre miliardi, cioè praticamente una parte irrilevante della spesa. Una spesa però che pesa interamente sulle spalle delle persone più povere e produce un’enorme mediazione burocratica che rende spesso ineffettivi i tempi delle cure; i tempi sono ormai diventati praticamente un fattore di crollo di una delle sanità pubbliche più avanzate del mondo.

Lo stesso fenomeno si sta verificando in Inghilterra, si sta verificando in Europa: stiamo assistendo ad un crollo delle nostre democrazie legato precisamente a questa involuzione autocratica.

Essa merita di essere chiamata così, perché il meccanismo che è stato introdotto attraverso la congiunzione della riforma costituzionale e della legge elettorale consegna il potere politico a una minoranza parlamentare di fatto fortemente vincolata al capo del Governo; è un fatto che già in parte è avvenuto tant’è vero che questa riforma costituzionale è una costituzionalizzazione dell’esistente, perché già oggi tra decreti legge, leggi delegate, leggi di iniziativa governativa, la produzione legislativa è per il 90% di produzione governativa. Già oggi noi abbiamo avuto un Parlamento esautorato, ma con queste riforme il Parlamento non conterà più niente, sarà per l’appunto una maggioranza di parlamentari, fortemente vincolati da chi deciderà della loro successiva elezione, a causa anche della disarticolazione sociale dei partiti, della loro neutralizzazione come fonti di legittimazione titolari delle funzioni di indirizzo politico, di controllo e di responsabilizzazione.

Il risultato quindi è un’involuzione autocratica, ed è su questo che dobbiamo decidere. Dobbiamo decidere NON tanto se vogliamo la Costituzione del ’48 a causa del suo prestigio e del suo valore simbolico, ma dobbiamo decidere tra democrazia parlamentare e sistema sostanzialmente autocratico, monocratico, che non è una questione di forma: questa forma è funzionale a una governabilità indirizzata a dare mani libere in materia soprattutto di diritti sociali, di diritti fondamentali di uguaglianza. Del resto la crescita della disuguaglianza è un fatto sotto gli occhi di tutti che viene incoraggiato dalle politiche governative non solo in Italia.

Il nostro voto è una scelta o a favore della democrazia pluralistica costituzionale oppure a favore di un’involuzione personalistica, verticalistica e autocratica del sistema politico.

Luigi Ferrajoli – Professore emerito di Teoria generale del diritto, Università Roma Tre; componente del Comitato scientifico di Questione Giustizia

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