(Da ANPI news 28 gennaio – 4 febbraio 2014)
Nella news-letter della scorsa settimana, mi sono occupato solo dello “sdoganamento” di Berlusconi. Di ciò che ho scritto sono più che mai convinto (basterebbe ricordare il sorriso sfolgorante dell’On. Santanchè, in televisione, dopo la notizia dell’incontro con Renzi e dell’intesa raggiunta fra i due).
Ma adesso è il caso di occuparsi del merito.
L’intesa sarebbe stata raggiunta su tre punti: legge elettorale; “abolizione del Senato”; riforma del sistema delle autonomie.
Il segretario del Partito democratico è stato perentorio: si tratta di un pacchetto da prendere o lasciare, soprattutto per quanto riguarda la legge elettorale, ma in definitiva anche per il resto.
Non sono mancati i consueti applausi all’indirizzo di Renzi, che avrebbe rotto il sistema del rinvio continuo ed avrebbe imposto una soluzione concreta, a breve termine. E’ certo che bisogna dare atto a Renzi almeno della velocità e della rottura di schemi ormai stantii. Ma superati i convenevoli, bisogna andare a guardare le carte, non senza qualche rilievo preliminare sul metodo, che sa più di populismo e di autoritarismo che non di aderenza ad un sistema che si fonda sui partiti (ovviamente “bonificati”), sul rispetto reciproco, sulla formazione delle decisioni a seguito di un serio e sereno confronto.
Il merito ci dice cose preoccupanti.
Anzitutto, per quanto riguarda la legge elettorale. Diciamo tutti da molto tempo che il porcellum doveva essere cassato poiché toglieva poteri e diritti ai cittadini.
Ma ora, d’improvviso, si scopre che lo schema di una nuova legge non restituisce affatto ai cittadini la libertà di scegliere, ma è seriamente e fortemente attestato, ancora una volta, sulle liste bloccate ad emanazione dei partiti.
Con ciò, si eluderebbe, prima di tutto, ciò che ha detto in modo inequivocabile la Corte Costituzionale; ma, in più, si commetterebbe un’ulteriore ingiustizia a danno dei cittadini. Né giova dire che, trattandosi di collegi piccoli, per pochi candidati, questi sarebbero conosciuti e facilmente individuabili. Può darsi, ma con quale possibilità di scelta? Io non sono un patito delle preferenze, ma vorrei che fossimo coerenti con ciò che in tanti abbiamo detto e scritto
n questi mesi (anzi, addirittura in questi anni). Dunque, il primo problema è trovare un modo per consentire ai cittadini una vera libertà di espressione. Quale sia il modo migliore, visto che ci sono riserve sia sulle preferenze che sui Collegi uninominali, è tutto da vedere; e soprattutto da discutere. Ma come si fa a discutere a fronte di una sorta di diktat?
Ma c’è di più: l’iter prevede uno sbarramento per entrare in Parlamento particolarmente elevato (5% per le liste coalizzate e 8% per le liste non coalizzate).
In sostanza, per garantire la stabilità, si fa leva soprattutto sui partiti maggiori e si escludono, letteralmente, molti dei partiti minori. E’ giusto lasciare fuori dal Parlamento la rappresentanza di centinaia di migliaia, se di non di alcuni milioni, di cittadini?
Non è in questo modo che si consente di esercitare la sovranità popolare, che – nella democrazia rappresentativa – ha necessariamente dei limiti, che però non devono essere eccessivi.
Anche in questo, il progetto che ora viene presentato va contro la sostanza delle motivazioni della Corte Costituzionale e contro una evidente logica democratica.
Per questo ho firmato un appello di giuristi perché non si dia vita ad un altro “mostro”, con ogni probabilità anch’esso affetto da illegittimità costituzionale. Naturalmente, ho firmato come “giurista”, perché non voglio impegnare l’ANPI (o quanto meno, potrei farlo solo dopo un’ampia discussione), ma sono pienamente convinto della bontà dell’appello apparso domenica su “il manifesto” (e che pubblichiamo integralmente alla fine di questa nota) condiviso da parecchi giuristi e costituzionalisti di valore.
Infine, anche sulla proposta di “abolizione” del Senato ci sarebbe molto da dire. E non solo per le ragioni su cui mi sono intrattenuto più volte, cioè che riforme costituzionali di tale calibro hanno bisogno di riflessioni di merito, attinenti soprattutto alla funzionalità, laddove qui si dice continuamente che l’abolizione del Senato sarebbe positiva perché consentirebbe il risparmio di un miliardo. Giustamente, Nadia Urbinati, Andrea Manzella e molti altri hanno osservato che le riforme costituzionali non si fanno per motivi di risparmio (che può essere realizzato in ben altri modi), ma per ragioni attinenti alla funzionalità. E’ universalmente riconosciuto che il bicameralismo “perfetto”, ideato dai costituenti dopo un ventennio di dittatura, ha ormai mostrato la corda, provocando lungaggini nell’iter legislativo e duplicazione di iniziative e di strutture; e dunque va corretto, tenendo conto della realtà, delle esperienze straniere e degli studi e ricerche fin qui effettuati.
Di questo problema si sono occupati sia i “saggi” nominati nella primavera 2013 dal Presidente della Repubblica, sia quelli nominati, in seguito, dal Governo. Perché non attingere non tanto alle loro conclusioni, spesso incerte, quanto alle loro “ricognizioni” sulle varie possibilità e sui vari schemi e modelli, adottati altrove e adottabili?
Invece, sembra che si proceda all’insegna dell’improvvisazione, soprattutto per fare una concessione all’opinione pubblica, a cui si è inoculata l’idea che il problema sia quello del risparmio di spese inutili. La differenziazione del lavoro delle due Camere è stata già, positivamente, sperimentata in tutti i Paesi che si ispirano al bicameralismo. E lo si è fatto cercando di raggiungere il massimo di funzionalità, che può significare anche risparmio, ma non come tema prioritario.
Fra l’altro, è facile convincersi che se ci sono due Camere che fanno un lavoro diverso, si può ridurre il numero di parlamentari, dell’una e dell’altra , senza che il sistema ne soffra e dunque coniugando funzionalità e risparmio.
Ci piacerebbe un dibattito serio sui vari modelli di differenziazione possibili; ne uscirebbe dimostrata per tabulas la superficialità, così come il populismo e l’opportunismo con cui si pensa di affrontare un problema molto delicato.
Per di più, nessuno ha capito cosa dovrebbe essere sostituito al Senato attuale: una Camera delle Regioni o delle autonomie (come eletta?) oppure una sorta di Conferenza delle Regioni, costituzionalizzata, oppure ancora in altre forme?
Ci vorrebbe un po’ di chiarezza e meno semplicismo; ancora una volta, il tema delle possibili modifiche alla Costituzione si impone in tutta la sua delicatezza. E come tale vorremmo che fosse affrontato e non con improvvisazioni o semplificazioni incomprensibili.
Infine, la riforma del sistema delle autonomie. Che significa? Abolire le provincie, costituzionalizzare il sistema delle città metropolitane, secondo modelli largamente in uso in altri Paesi? Oppure fare qualcosa di diverso? Le scarne enunciazioni che sono state fatte finora non raggiungono il livello di un’argomentazione seria e di ipotesi fondate su esperienze, studi e confronti. E dunque, ancora una volta, il cammino riformatore è più declamato che non concretamente delineato.
E invece, occorrono idee chiare, discussioni serie e “aperte” al confronto (cosa che, spesso, appare poco gradita agli “innovatori”).
Infine, per tacer d’altro, che fine hanno fatto le misure per le quali il Governo delle “larghe intese” era nato, quelle che dovrebbero consentire il rilancio delle attività produttive, la creazione di nuovi posti di lavoro, e garantire sistemi di “sopravvivenza” diversi da questa costosa, inutile e limitata cassa integrazione?
In questo campo, gli “innovatori” dicono ben poco. Il Governo continua a promettere e latita. I cittadini si trovano un po’ tra Scilla e Cariddi, tra voglia di cambiare e uscire dall’immobilismo e (giusto) desiderio di farlo con raziocinio e con serietà, sulla base di confronti e non di accordi “al vertice”, che tutti dovrebbero subire positivamente.
Insomma, “qui è Rodi e qui bisogna saltare”, come dicevano gli antichi. Finora, Rodi c’è, ma di “salti” veri se ne vedono ben pochi.
Carlo Smuraglia, presidente nazionale ANPI